Tempo fa conclusi
la stesura di alcuni appunti con due domande: cosa deve o può ancora spiegarci il visibile, cosa può o deve (ancora)
spiegarsi lo sguardo?
Riflessioni che
scaturivano da alcuni scritti di Merleau-Ponty sulla percezione; in particolare
su come tra soggetto e oggetto potesse avvenire una relazione organica che
tentasse di definire – in qualche percentuale – il superamento di
dicotomie ed estremi ontologici, rivolgendo l'attenzione su eventuali azioni di
scrittura e letture estetiche di opere che pur schiudendosi alla
contemporaneità, non fossero tuttavia destinate a costituire in modo esaustivo
o definitivo fondamenti e istanze, ma suggerissero comunque criteri e indicatori estetico-linguistici. Scrivevo di
uno spazio-mondo, di uno spazio-gioco entro cui organizzare traiettorie di
uno sguardo differente sulla realtà. In sintesi, organizzare il sensibile,
contempla anche questo; insieme a criteri di azioni e attraversamento dei fatti, del visto, del non
visibile, che richiedono una presenza, una cognizione acuta che accosti
porzioni di reale a porzioni di virtuale, margini possibili di manovre in una
territorialità anzi in una extraterritorialità – entro confini –
virtuali, politici anche, non sempre noti o identificabili. [...] il modo è l'innesco di un protocollo di estraneità.
prendere la distanza -- avere una visione dall'alto -- mirare ciò di cui
si è parte -- le unità di misura (i confini politici). [1]
Ciò che configura
la cifra politica di un linguaggio della contemporaneità, si fa anche carico di
sintomi, di figure in ombra – quelle di un'intimità dislocata, aliena-ta,
lontana dal soggetto e rivolta alle cose.
Una soggettività
che in qualche misura mette l'io fuori fuoco, ne definisce forse, con più
nitidezza, le disfunzioni, i sintomi; un
io che (in un contesto contemporaneo) sospenda ogni interesse per
l'essente affinché, paradossalmente, esso sia. Una scrittura contemporanea
è in definitiva (e indefinitivamente) l'epigrafe in motu di se stessa. Descrive
la propria deiscendenza. Pur gettando l'io fuori campo, lo colloca nel
mondo, vive dell'intersoggettività, dichiara la sua presenza nella comunità, ne
organizza azioni, configurando innumerevoli scenari di combinazione del
possibile (l'infinito della situazione). Emblematico, per esempio, è l'utilizzo che Francis Ponge fa, in
Nioque de l'avant-printemps, del simbolo matematico dell’infinito.
Oh solitudine
zeppa di elementi muti, tutti fissati al proprio posto, senza sguardo,
paralitici, è qui, qui dove tutto un paesaggio mi incravatta e mi prolunga le
spalle a destra e a sinistra, qui dove per esprimersi ha soltanto la mia voce
(qui dove non mi devo troppo difendere da animali pericolosi), è qui che sento la mia
ragion d'essere.
Il
Paesaggio ∞* grandi nodi colorati di bistro, rattrappiti e paralitici
(infermi) sotto i rabbrunamenti bluastri, sotto i voluminosi pensieri
provenienti da ovest. [2]
Sostituendo la
"oh" lirica con il simbolo matematico dell'∞, Ponge forse tenta di utilizzare così come
direbbe Braque, una regola che corregge l'emozione, trascendendo classicismo e
romanticismo attraverso il primato dato alla materia e ai simboli ad essa attribuiti e di sostituire l'io lirico con il primato dell'oggetto,
facendo esclamare l'oggetto stesso, ovvero la natura, dando voce a ciò che appartiene al seriale, alla
ricorsività, alla coazione dei cicli naturali. Nioque de l’avant-printemps vuol
essere nella sua interezza un documento strutturato in una serie di
annotazioni; ne possiamo leggere ulteriormente qui in una nota di Marco Giovenale sul blog recognitiones-ii.
[…] L’oggetto, terzo
termine attraverso il quale trascendere classicismo e romanticismo, trova
posto (compiendosi) dentro l’opera stessa; è il contrappunto tra la portata
politica dell’opera (opera che descrive se stessa con l’ingenuità e semplicità attraverso le quali la natura si manifesta) e lo slancio, l’emozione,
l’aspettativa dell’avvenire, quale elemento
– naturale, volitivo – di
cognizione del mondo […]