Marco Giovenale
Come esistono spostamenti del continente “testo narrativo”, quando accade che blocchi interi di romanzi, o famiglie di autori, che nel tempo e con lo smarginarsi o vicendevole divorarsi delle teorie fanno massa coesa o si disintegrano e – in una ideale deriva dei continenti alfabetici – assumono una diversa configurazione in quello che pensiamo essere un buon rilievo cartografico delle scritture, così si può dire che le teorie stesse, scogliere intere di definizioni, rupi di criticism, possono compattarsi, franare, emergere, collidere (non nella realtà-realtà, fortuna vuole; sì nella più concreta realtà dei segni che ci costruiamo, a proposito della realtà-realtà).
A questo proposito – con io meno critico che autoriale – vorrei suggerire (o dire che vedo, vedrei, penso di vedere) proprio un conflittuale compattamento.
In questi tempi vedo, osservo – e suggerisco – il darsi di una imperfetta ma forse non infelice unione tra categorie o schegge di generi che, considerate poi singolarmente, possono anche non aver ricevuto di fatto una organizzazione e definizione condivisa, ed essere al limite in movimento, addirittura “all’avanguardia”, o perfino di là da venire, in sostanza inespresse. E tuttavia, ancora non espresse e allineate dai critici in elenco, unirsi. Si uniscono. O possono esser passibili di presentazione di gruppo.
Allora ne assommo / accorpo / unisco – o vedo unite – cinque, ora:
– new sentence (Silliman)
– prosa in prosa (Gleize)
– googlism, flarf (Mohammad)
– scrittura concettuale (Goldsmith)
– loose writing
Non metto parentesi dopo la quinta “categoria”; è ancora in larga parte sfocata e ne sono non autore masegnalatore. Non vorrei debordare in imprecisione.
Ron Silliman parla di new sentence a proposito (sintetizzo) di una frase che si innesta volentieri in una sintassi e macroarticolazione o sequenza di frasi che in qualche modo rimandano a contatenazioni tipiche del sillogismo, a segmenti relati, legati (o che esibiscono legami, o che implicitamente chiedono al lettore di vederli, di sentirli stabiliti), proprio nel momento in cui la normale, razionale, dimostrata-dimostrabile descrittibilità e consequenzialità è (giusto grazie a quelle stesse frasi) fatta saltare, gettata in crisi.
Si ha new sentence, aggiungo dunque, nei momenti migliori – per dire – di Partita, di Antonio Porta, o in Balestrini (Tristano, certo non nelle forti spezzature date dalle e nelle sue opere in versi). (Nella new sentence l’andamento sintattico è solitamente mantenuto: i salti di senso avvengono all’interno della nuvola o flusso di coesione sintattico).
Si ha prosa in prosa (espressione di Jean-Marie Gleize) quando viene registrato un azzeramento dei marcatori del poetico. Che questo accada tramite poesie che debordano costantemente in prosa, o per via di prosa che è (solo) prosa, o per via di elencazioni, liste, dissipazioni tassonomiche, racconti non narranti (interrotti, iperframmentati), conta poco. Sono strategie o eventi testuali legittimi. L’essenziale, penso, è semmai l’eliminazione – dal piano delle scritture – del piano delle retoriche e dei tropi stabiliti. Con, in più, il vincolo arduo della indisponibilità a cedere alla tentazione di istituire, con questa prassi, altri tropi, ossia cristallizzare una seconda (altera) retorica, daccapo normante e normalizzante. Dire “prosa in prosa” (tentativamente, aggiungo) vorrebbe anche dire sensibilità alla soluzione individuale, non pregarantita, a suo modo (con “suo” sottolineato).
La definizione di googlism è in buona parte tutta presa da e compresa in un riferimento semplicissimo al più noto e usato (e funzionale ma anche “usurato”) motore di ricerca. Accolto nel sistema della letteratura come strumento di scrittura, elemento nodale. Tuttavia K. Silem Mohammad, che di googlism e del movimento flarf è teorico e autore, specifica che quelle che emergono attraverso googlism non sono frasi e storie e pagine e materiali e occorrenze e insomma oggetti trovati, “found” (come il Merzbau di Schwitters o i readymades di Duchamp) bensì “sought”, attivamente cercati, cacciati (chased), perseguiti-perseguitati e così – coerentemente – montati in testo, stabiliti, formati, costruiti, torniti, ripresi e ‘stabilizzati’.
Spesso (per non dire sempre) montati e formati, per altro, secondo modalità di iterazione compulsiva e paratattica (come certi versi ossessionati da pornografia in Deer head nation, dello stesso Mohammad) oppure per via di una logica da new sentence. E ciò può avvenire sia nello stesso autore che nello stesso libro o frazione di libro.
Materiali incongrui (ma sought and reoriented) vengono incolonnati ed elaborati e/o immersi in parasillogismi, finte storie, dichiarazioni politiche inventate, insulti sconvenienti, volgarità e palesi “scorrettezze”. Un significato di flarf può essere “fuffa”, limatura, scarti.
Nella scrittura concettuale (di cui si parla spesso in panels e contesti e reading e convegni vicini comunque anche a googlism e flarf) è invece la procedura a sostituire la forma. La bontà del testo è praticamente coestensiva con la bontà dell’idea (intenzione, programma, progetto procedurale) di base.
Si decide come procedere: come raccogliere materiali, da dove, in che modo organizzarli: e si inizia. Alla fine l’iter rigorosamente seguito costituisce l’intero del rigore del testo, la sua – diciamo – difendibilità. Un testo – per esempio – consistente nella minuta puntuale micrometrica descrizione di tutti i gesti compiuti in un dato arco di tempo (Kenneth Goldsmith come un Perec al cubo, volendo) diventa un blocco gigantesco di frasi che non è apprezzabile serialmente tramite una lettura integrale o lineare, né si rivela interessante se analizzato nelle sue cellule frasali costitutive, spesso banalissime e giustapposte senza volontà di sottintendere alcun legame di sintassi o consequenzialità (in ciò differenziandosi dalla new sentence, in linea generale).
La scrittura concettuale dà o può dare così origine a testi che singolaremente presi sono somme o monoliti, e appartengono più alla visualità e (anti)monumentalità dell’arte contemporanea, piuttosto che a un possibile inquadramento nelle logiche della retorica discorsiva, della prosa, del verso.
Più difficile parlare di loose writing, e circoscriverne il campo. Se ne può parlare a proposito di alcune pagine in versi e testi-diario di Rossella Or? È una scrittura che ha avuto autori – diciamo pure – “ondivaghi”, e di risultati differenti, specie nel corso degli anni Settanta e Ottanta – ma anche ora, oggi – proprio a Roma. Non si vuole qui ritagliare una frazione di scrittura di ricerca, nella costellazione intrattabile del variopinto contesto (beat, anche, in passato) della capitale. Se alcuni autori vanno citati, occorre sceglierne di connotati, e solidi; e ce ne sono; e sono tali da suffragare la teoria, non metterla in scacco. La Or è tra questi. Altra voce a mio avviso geniale e praticamente infallibile di loose writing è quella di Carlo Bordini. La sua è una scrittura a cui non rendono giustizia gli aggettivi “svagata”, “assente”, “distratta” (all’apparenza), “gettata” (buttata via?). Né ha assolutamente le movenze dell’impersonalità (pur giovandosi di affetti & effetti a questa pertinenti), dell’astrazione o caduta del soggetto, della freddezza. Il soggetto c’è, e se cade non è perché scompare ma perché scivola, ruzzola, scarta di lato, si fa incerto nel/del proprio asserire autoriale (in questo rivelandosi vicinissimo alla prosa in prosa gleiziana), e proprio non vuole millantare autoritarismo-autorevolezza, anzi sfugge a ogni struttura rigida del sé. Fugge non dalla responsabilità ma dalla irreprensibilità della retorica. La irride irridendosi, semmai.
Si tratta tutto sommato di un auctor e di testi fortemente orientati in senso “egotico” (ma quanto più possibile lontani dal narcisismo; o vicini a un narcisismo per negazione: dove a forza di autolesionismo la sagoma dell’io ricompare sul sonar, dal fondo). (E Dal fondo si intitolava una antologia di scritture di “marginali” – ed emarginati – che Bordini con A.Veneziani curò per Savelli, e che Avagliano ha recenemente ristampato)
Altri nomi che si potrebbero fare (di voci poi particolarmente attive, insisto, a Roma) sono quelli di Paola Febbraro, di Victor Cavallo, e forse perfino di Amelia Rosselli, a cui ci si può accostare – non senza ragioni – da questa precisa angolazione, osservando le intenzionali “debolezze” e i tratti inconclusi, lo sfumato antilirico, nella trama e disegno del suo Diario ottuso, ad esempio.
Se di loose writing si può parlare, come credo, in riferimento a pagine tanto memorabili quanto antiretoriche, “informali” ma non informi, in diversi autori che hanno operato nella capitale e in Italia negli ultimi trent’anni, non possiamo stupirci che i risultati materiali, sulla pagina, di costoro, siano tanto convincenti quanto quelli di chi, in altri paesi, scrive e fa flarf, o googlism, o new sentence, e spesso scrittura concettuale.