- La poesia italiana contemporanea ha bisogno dunque di tornare a interrogarsi sul proprio rapporto col reale?
Intanto, direi che la poesia ha sempre bisogno di interrogarsi sul proprio rapporto col reale. La poesia dovrebbe sempre interrogarci su nostro rapporto col reale, e può farlo soltanto interrogando sempre anche se stessa, il suo linguaggio, le sue forme. Dunque, non può che essere sempre nuova, poiché il reale muta costantemente. Che poi non muti “verso il meglio”, ebbene, ciò non attiene al concetto di nuovo inteso come proprio di un certo tempo storico in un certo luogo, bensì, e mettendolo in crisi, al nuovo inteso come “tappa di progresso”. Invece, e per molti anni e ancora oggi, è stata accolta come “ovvia” l’equazione “fine del progresso” – “fine del nuovo”. Quel progresso, il procedere teleologico della storia umana verso la sua perfettibilità, se non perfezione, non è mai esistito: è stato, è ancora nella sua versione dominante – neoliberista, per intenderci -, ideologia. Ma il nuovo inteso come mutamento dei linguaggi, delle forme dell’arte in rapporto col mutare delle condizioni non è finito, non può finire. Sarebbe inutile dirlo, dirne, non fosse che, invece, si va dicendo, con insistita ottusità, che, ad esempio, la poesia italiana è finita trenta e più anni fa, che poi non c’è stato altro che epigonismo postmoderno. Anche ammesso che sia così – e non è così – quell’epigonismo rappresenta comunque, nelle sue forme, il nuovo di fine secolo…
Intanto, direi che la poesia ha sempre bisogno di interrogarsi sul proprio rapporto col reale. La poesia dovrebbe sempre interrogarci su nostro rapporto col reale, e può farlo soltanto interrogando sempre anche se stessa, il suo linguaggio, le sue forme. Dunque, non può che essere sempre nuova, poiché il reale muta costantemente. Che poi non muti “verso il meglio”, ebbene, ciò non attiene al concetto di nuovo inteso come proprio di un certo tempo storico in un certo luogo, bensì, e mettendolo in crisi, al nuovo inteso come “tappa di progresso”. Invece, e per molti anni e ancora oggi, è stata accolta come “ovvia” l’equazione “fine del progresso” – “fine del nuovo”. Quel progresso, il procedere teleologico della storia umana verso la sua perfettibilità, se non perfezione, non è mai esistito: è stato, è ancora nella sua versione dominante – neoliberista, per intenderci -, ideologia. Ma il nuovo inteso come mutamento dei linguaggi, delle forme dell’arte in rapporto col mutare delle condizioni non è finito, non può finire. Sarebbe inutile dirlo, dirne, non fosse che, invece, si va dicendo, con insistita ottusità, che, ad esempio, la poesia italiana è finita trenta e più anni fa, che poi non c’è stato altro che epigonismo postmoderno. Anche ammesso che sia così – e non è così – quell’epigonismo rappresenta comunque, nelle sue forme, il nuovo di fine secolo…
[da: G. Mesa, Intervista per "Il vascello di carta", n. 4, 2000, a c. di L. Magazzeni]