La conclamata fine delle certezze, se tale, non potrebbe che avere conseguenze incerte. A queste non appartiene la certezza dell’irrimediabilità dell’esistente, che, sappiamo, è l’ideologia fortissima del decennio, e che, sappiamo, ha generato più sollievi che angosce. Ogni determinismo rivelatosi insostenibile, dentro e contro il dominio, l’incertezza ha indotto, massimamente, ad agevoli ed agiati (e adagiati) migliorismi, e, nello specifico, al fiorire di torme di “cuori in pace”, che riscoprono una “serenità dell’arte” magari riproponendone la “inutilità” (l’autonomia autoriferita sdrammatizzata) proprio quando più nessuno la nega, magari riproponendone la “utilità” (con dei bei referenti ben finalizzati) proprio quando tanto è apprezzata un’arte lenitiva. Serenità utili e inutili, che serenamente convivono, rappresentano impeccabili la loro assenza, il loro esagitarsi nel grande rito di celibato dell’occidente necrofilo, necrofago e invaghito come non mai del suo sapere. Scrivere senza serenità sarebbe già una possibile sperimentazione? (L’avanguardia, e il suo progetto, sono invece possibili solo per chi si ostina a credere che la storia abbia un suo moto inderogabile verso il “bene”).
Tentiamo un altro elenco. Una sperimentazione intesa quale mera opposizione (al linguaggio poetico egemone, se c’è, o ai linguaggi del potere) dura lo spazio della sua reazione (ripetibile, sì, e anche serenamente, e tanti sono i ripetenti). Una sperimentazione solo intesa a far “progredire” l’arte, si immagina verso qualche monumento di civiltà, sarà utilissima per decorare i centri sperimentali della così bramata società telematica. Tanta sperimentazione del Novecento è cresciuta dentro gusci ideologici liberticidi e razzisti e classisti: non va dimenticato e va ricordato, quindi, che sperimentazione è parola di per sé garante di ben poco, al di fuori del suo uso contingente e contestuale.
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Supposto che la motivazione ontologica, ma direi piuttosto biologica, e quella storica dello scrivere permangono oltremodo incognite, se si scrive per una necessità di conoscenza e descrizione critica del negativo (diciamo che il positivo sia già nel farlo), se ogni lettera tracciata proviene da uno sgomento e da un orrore impagabili e da desideri che lo scrivere può solo inasprire, allora la sperimentazione coincide con questo stato di necessità. E sono sempre gli altri a riconoscerla, a riconoscerlo.
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Morto il determinismo teleologico, si rifonda la volontà: e l’etica con essa.
[in Primo Quaderno di «Invarianti». Letteratura, a c. di Giorgio Patrizi, Pellicani, Roma 1989]