Caro Vanni,
correggo le bozze della
seconda edizione di «Pseudobaudelaire»
e mi chiedo se nel testo la lingua è in azione, se è ancora visibile; nella
costruzione materiale del libro, il linguaggio che mi ha parlato. Queste pagine
hanno già finito di vivere o possono ancora fare parte di ciò che sarà detto?
Una seconda edizione,
anche se non l'abbiamo segnata nell'ultima pagina, sposta il libro oltre la
parola fine - a più di vent'anni di distanza. Scrivendo queste poesie ritenevo
di avere raccolto segni di una realtà che si era manifestata ampiamente,
codificata in una lingua artificiale, standardizzata per stereotipi politici,
pesanti, ormai privi di emozione, ma che si sarebbe organizzata come memoria in
un tempo successivo, dando vita a una realtà testuale.
Come se la poesia
vivesse prima dell’apparizione del testo. Se è possibile ricordare il passato,
non è possibile dimenticare il futuro. Il futuro non si vede e quando il poeta
lo comincia a parlare, per questo viene considerato cieco.
Scrivevo, dunque,
poesie per un testo invisibile, per conficcare una spina nella lingua che lo
avrebbe parlato.
Il linguaggio standard
usato appare sempre più come una lingua ignota e l’oggetto «Pseudobaudelaire» è merce d’uso per usi
sconosciuti. Non sapevo che i tempi sopraggiungessero così rapidi, da fare
rileggere «Pseudobaudelaire» come
specchio degli anni immediatamente successivi alla sua stesura.
L’irrealtà del libro è
testimoniata dalla irrealtà delle sue traduzioni – e fra queste, la più cara,
quella in lingua ceca, ora che è stato travolto tutto dagli avvenimenti:
proposta, ipotesi di lavoro, traduttrice.
Ma era già irreale il
presupposto di andare alla ricerca dell’oggetto testuale reale, che si sarebbe
formato dopo o avrebbe dovuto manifestarsi dopo. Come un bersaglio nascosto che
fa volare la freccia alle spalle dell’arciere.
Il mio lavoro di poeta
è stato questo: sollecitare, anticipare, percorrere un’improponibile poesia non
mia, convincere che « x » nascerà e che giustificherà
il mio testo.
Oggi molti critici sono spaventati
dalla foresta oscura, continuamente dilatata, della produzione poetica
contemporanea. È evidente che è tramontato il sogno della « poesia fatta da
tutti » in nome del sogno della « poesia che sta per comparire »: una grandiosa
piramide, in cui ciascuno pensa che verrà collocata la sua pietra.
Con «Pseudobaudelaire» fabbricavo una pietra
di scarto. Dalla produzione di significati volevo esaurire la possibilità di
senso. Un contenuto senza recipiente che lasciava a mani vuote la catena del
passamano.
Una poesia senza
lettore in attesa della nascita del testo, dove sarà tessuta, scomparendo in un
disegno più profondo.
L’origine della poesia
è l’eco, ma, qui e ora, sono l’eco di una bocca chiusa, che non si è ancora pronunciata.
Per il poeta non c’è
nessuna biografia – a tutela della sua immagine. La società ha fissato una
soglia, un limite che serve solo ad entrare e dal quale il poeta vuole solo
uscire. Non si vuole spostare la parola oltre il limite del presente. Non si
vuole futuro, per dimenticare ciò che volevamo in passato.
Così, al contrario del
romanzo, non si sviluppa tempo nel tempo della poesia. Resta ferma – per questo
non mi sono opposto alla seconda edizione di «Pseudobaudelaire». Va bene. E va bene la mancanza di biografia,
sempre lo stesso vuoto: «Corrado Costa è nato al Mulino di Bazzano (Parma) il 9
agosto 1929. Vive a Reggio Emilia, esercitando l’avvocatura e la patafisica».
Se la poesia
contemporanea ha qualche punto di partenza, non ha ancora qualche punto d’arrivo.
È qui che mi distinguo dai poeti «arrivati». Non si è stati
chiamati a innalzare un edificio, ma «a vedere in trasparenza - cito da
Wittgenstein – davanti a sé le fondamenta degli edifici possibili».
Per questo i miei libri successivi
non sono altro che ciò che avrei dovuto scrivere prima di «Pseudobaudelaire».
Corrado Costa – Lettera all’editore a proposito
della seconda edizione di Pseudobaudelaire
[da «Cose che sono parole che
restano» edizioni Diabasis 1995]