Quando vivevo e camminavo a Roma, quasi ogni giorno costeggiavo per qualche decina di metri un campo sportivo costruito in epoca fascista e circondato da statue di atleti in stile finto romano, ognuno assiderato per l'eternità in una certa posa.
Ero tornato a vivere in Italia dopo molti anni passati altrove, da poche settimane era morta mia madre e c'era stato per me e un'altra persona un crollo acuminato di dolore nero, per cui giorno dopo giorno avanzavo a testa bassa per tagliare un'aria che sentivo richiudersi compatta intorno a me, senza prestare attenzione a ciò che mi circondava.
Però quelle statue le guardavo. Mentre ogni giorno diversi pensieri mi attraversavano loro erano lì, sempre uguali.
Poi ho letto che a ciascuna corrispondeva una disciplina sportiva e che quasi ognuna era stata donata da una diversa provincia italiana. Quindi a ogni statua corrispondeva una identità: Azione (lo sport) e Nazione (l'origine).
Passando ogni giorno e osservandole immutate in sempre diverse condizioni d'atmosfera o di luce, cominciai a trovarle belle: dialogavano serene con lo spazio circostante e la storia di cui erano eredi; a ogni istante affermavano sé stesse; così compresi quel bisogno di identificarsi di cui il fascismo che le aveva prodotte era solo un aspetto marginale rispetto a una pulsione molto più profonda e difficile da sradicare.
In quei giorni, nelle mie allucinazioni vedevo la letteratura italiana di oggi come la versione animata di quelle statue: i gruppi, le fazioni, le scuole, le tendenze... Grappoli di stalattiti in una grotta vuota e densa di urla mute, ossessive, inesistenti, incessanti. Nugoli di insetti terrorizzati. Cosa e come annerire.
Invece oggi penso che devo a un tempo allargare il discorso all'intero universo e restringerne il fuoco su me stesso: nessun artista - non è giusto! - dovrebbe diventare statua. Non essere postura, non identità, non restare immobile a volere dimostrare chissà che cosa a non si sa chi, quando un disperato ti cammina ogni giorno così poco distante.